Introduzione
Nel mondo della cinofilia, il confronto tra educatori gentili e addestratori classici è spesso un dialogo tra sordi. Non ci si capisce, non si riesce a parlarsi davvero. E non perché manchino le parole, ma perché si parte da premesse radicalmente diverse: diversi valori, diversi obiettivi, diversa visione del cane. Questo non è un semplice scontro tra tecniche, ma un vero e proprio conflitto culturale. Un conflitto che va guardato in faccia — non per decidere chi ha ragione, ma per capire dove nasce. E magari, per scegliere da che parte stare con un po’ più di consapevolezza.
Obiettivi diversi: controllo vs relazione
L’addestramento tradizionale punta al controllo: un cane “affidabile”, “ubbidiente”, che esegue comandi in ogni situazione. L’educazione gentile lavora per una relazione cooperativa: un cane che si sente al sicuro, che si fida, che sceglie di seguirci perché si fida, non perché teme conseguenze. Per un addestratore, un cane è bravo se fa quello che gli viene chiesto. Per un educatore, un cane è bravo se sta bene, e quindi si comporta in modo equilibrato.
Comportamenti da correggere o emozioni da comprendere?
Qui c’è forse il cuore del conflitto. Per l’approccio tradizionale, il cane che abbaia, ringhia, tira o non risponde sta sfidando. Per l’educatore gentile, quel comportamento è solo la punta dell’iceberg: un’espressione di disagio, paura, stress, frustrazione. Quando risolvi l’emozione, il comportamento si estingue da solo. Non c’è bisogno di punire, né di premere sull’obbedienza. Il cane non ha più bisogno di quel comportamento. E a quel punto, sarà “bravo” indipendentemente dai comandi. L’approccio classico, invece, può far sembrare il cane bravo… finché qualcosa non rompe l’equilibrio. E allora “ha reagito senza avvisaglie”. Ma le avvisaglie c’erano. Solo che nessuno le ha ascoltate.
Il mito del ‘Balanced Trainer’
C’è poi chi si presenta come via di mezzo: il balanced trainer. “Uso il rinforzo positivo, ma se serve correggo.” Sembra ragionevole. Ma non lo è. Perché se vedi davvero le emozioni del cane, non ti viene in mente di inibirle. Non dici “no!” a un cane spaventato. Non strattoni un cane stressato. Non punisci un cane confuso. Chi dice di fare “un po’ e un po’” spesso non ha ancora fatto un vero passo verso la comprensione del cane. Il balanced trainer non è equilibrio: è una confusione tra tecnica e etica, tra risultato e relazione. E a volte, diciamolo, è solo un modo elegante per coprire l’incapacità di scegliere davvero.
Leadership o guida?
L’addestramento classico parla di “dominanza”, “capobranco”, “autorità”. L’educazione gentile parla di “fiducia”, “collaborazione”, “guida”. Non è solo una differenza di linguaggio. È una differenza di visione. La leadership per imposizione genera sottomissione o conflitto. La guida relazionale costruisce rispetto reciproco. Non si tratta di “lasciar fare al cane” — si tratta di costruire insieme un modo di stare al mondo. Punizione o contenimento? Per alcuni, punire è parte del lavoro. È “necessario”, “educativo”. Per altri — per noi — la punizione non ha spazio, non perché siamo deboli o permissivi, ma perché crediamo in altro. Il cane che sbaglia ha bisogno di essere capito, non represso. La punizione blocca un comportamento, ma lascia intatto il malessere che lo genera. E spesso, lo peggiora.
Per gli umani perdere le staffe è una dote naturale, non hanno bisogno di lezioni da parte mia.
Quella con il cane è una relazione, e nelle relazioni esistono aspettative, e cioè noi desideriamo precisi comportamenti da chi ci sta vicino. Questo è normale, ma l’essere parte di una relazione ci rende sovente ciechi, ed eccessivamente improntati a sentire solo i nostri bisogni e desideri. In realtà le relazioni sono fatte di compromessi, il paradiso terrestre non esiste ne per noi proprietari ne per i nostri cani (e non sarebbe giusto nei nostri confronti l’essere troppo permissivi perchè questo limiterebbe eccessivamente la nostra libertà, e non sarebbe corretto esserlo nemmeno relativamente ad un corretto svilippo psichico del cane. “La vita è dura. La sofferenza esiste” questo è vero per tutti e deve esserlo anche per i nostri cani, perchè crescano capaci di adattarsi al mondo reale che non può esser sempre idilliaco.) Quindi: noi abbiamo la responsabilità ed il diritto di spiegare al cane quali comportamenti sono promuovibili e graditi e quali da evitare, ma senza dare di matto, senza abusare della nostra forza e posizione. Le informazioni “negative” possono essere date quando le nostre emozioni sono stabili. Diversamente stiamo solo scaricando il nostro stress sul cane, non è educazione.
Ma allora… si può entrare in conflitto con un cane?
Sì. Certo che sì. Essere gentili non significa non arrabbiarsi mai, non dire mai “no”, non avere limiti. Il conflitto esiste. È parte della relazione. Anche con i cani. Ma c’è modo e modo di viverlo. Personalmente, quando sento che sto perdendo la calma con un cane, faccio una cosa: metto le mani dietro la schiena. Non è un gesto casuale. È un promemoria per me: non ti tocco, non reagisco d’impulso. È un messaggio per il cane: sì, sono arrabbiato. Ma non ti farò del male.
Per esempio, una volta un cane ha cominciato a bullizzare un piccione ferito. Le mie parole erano ignorate, richiamo ed ascolto assenti. Ho sentito salire la rabbia. E lì, mani dietro la schiena. Respiro. Sto nel mio confine. Alzo la voce quanto basta per ottenere l’attenzione del cane ed interrompere quel comportamento. Mi impegno a non usare le mani, ma se devo usarle l’intenzione sarà quella di “bloccare, fermare”, e mai “strapazzare” il cane. Una volta bloccato torno nuovamente ad attendere che riesca ad ascoltare le mie parole. Serve determinazione e pazienza.
Ho, e desidero avere dei confini, e sono gli stessi confini che pretendo che i cani mantengano nei miei confronti.
“Possiamo litigare, ma io non tocco te e tu non tocchi me.”
E’ un accordo. E’ la lealtà dell’insegnante verso il proprio allievo, e voglio che il cane, mio allievo, abbia certezza di ciò.
“Ne l’istruttore, ne il tuo proprietario vogliono farti del male. Tranky :)”
Non è vero che ai gentilisti arrivano i cani facili
Uno dei luoghi comuni più duri a morire è questo: “Voi educatori gentili avete a che fare solo con cani facili. Noi addestratori prendiamo i casi difficili, quelli ingestibili”. Falso. I cani facili non li vede nessuno, né noi né voi. I proprietari che chiedono aiuto sono quelli che hanno un problema. Nessuno porta una macchina dal meccanico se funziona. E quindi, se arrivi da me, è perché qualcosa non va. E a volte quel “qualcosa” è molto, molto profondo. Lavoriamo anche (e spesso) con cani reattivi, aggressivi, traumatizzati, o semplicemente incompressi da mesi, anni. Solo che non cerchiamo scorciatoie. Non ci imponiamo. E funziona. Eccome se funziona.
Gentile non vuol dire inefficiente. Vuol dire intelligente.
Altro mito: che l’approccio gentile sia troppo teorico, poco pratico, inefficiente. Ma l’efficienza, quella vera, si misura nei risultati duraturi. E soprattutto, si misura nella capacità di capire cosa serve davvero, al cane… e al proprietario. Faccio un esempio: due cani che in passeggiata litigano o si bloccano a vicenda. Consiglio al proprietario di portarli separati, almeno per un periodo. Reazione tipica: “Eh ma così devo uscire due volte, mi raddoppi il tempo che perdo in passeggiata, non posso mica fare lo schiavo…” Un addestratore classico, per non perdere il cliente, potrebbe anche dargli ragione: “Hai ragione tu. Sei tu il capobranco, non farti mettere i piedi in testa.” Ma quando a farmi quella domanda è un tartufaio, io non gli parlo di dominanza o di gerarchie: gli dico solo che i suoi cani stanno male insieme. Lui prova a portarli separati, incredulo. E pochi giorni dopo mi scrive: “Da quando li porto uno per volta, faccio il 50% in più di tartufi.” Perché i cani, sereni, smettono di litigare e iniziano a lavorare autonomamente con impegno.
Gentilezza non è debolezza.
È osservazione lucida, è strategia, è efficienza reale. Pragmatici un corno. C’è questa convinzione diffusa tra chi usa la forza: “Noi siamo pratici. Voi siete teorici.” “Noi risolviamo. Voi fate filosofia.” Ma andiamo al sodo. Chi strattona un cane per farlo sedere, chi alza la voce per “farsi rispettare”, chi si infastidisce se gli parli di etologia o di emozioni… non è pragmatico. È superficiale. Snobbare i video, ignorare i segnali del corpo, non voler perdere tempo ad ascoltare… non è concretezza. È pigrizia mentale. Il vero lavoro pratico, quello serio, è fatto di osservazione fine, di studio, di confronto. È fatto di ore passate a guardare filmati al rallenty per capire quando esattamente un cane cambia stato emotivo. È fatto di dubbi, di domande, di aggiornamento continuo. Filmare. Analizzare. Confrontarsi con l’etologia, con la scienza. Non è roba da fighette. Non è roba da gente senza palle. È il lavoro sporco, vero, meticoloso, anche noioso, che ti permette di non dover mai più alzare una mano. Chi non lavora così, deve solo avere il coraggio di ammettere la verità: non è più pratico. È solo rimasto indietro. Un cavernicolo con il guinzaglio.

Conclusione: non siamo tutti educatori. E non va tutto bene.
No, non è vero che “ogni metodo va bene se il cane sta bene”. No, non è vero che “basta che funzioni”. Educare un cane è un atto profondamente politico: decidiamo come trattare chi non ha voce, chi dipende da noi, chi si affida a noi senza difese. Non siamo “gentilisti” per debolezza. Lo siamo perché abbiamo scelto di non cedere alla comodità del controllo. Abbiamo scelto la strada più lunga, ma più vera. Più scomoda, ma più rispettosa. Più faticosa, ma più efficace. E alla fine, funziona. Funziona per il cane. Funziona per il proprietario. Funziona se vuoi fare chili di tartufi. E funziona per noi, che possiamo guardarci allo specchio ogni giorno senza doverci raccontare scuse. Educare con gentilezza non è un’opzione. È una scelta efficiace ed è una responsabilità.
Bibliografia
Le fonti esaminate forniscono la base per sostenere l’adozione di metodi di addestramento del cane basati sul rinforzo positivo, evidenziando i potenziali rischi per il benessere e l’aumento dell’aggressività associati all’uso di metodi aversivi. Il concetto di dominanza come motivazione primaria del comportamento canino e come tratto individuale è ampiamente messo in discussione dalla ricerca attuale. Comprendere le barriere all’adozione di metodi umani e sfruttare la conoscenza delle capacità cognitive ed emotive dei cani può contribuire a promuovere pratiche di addestramento più efficaci ed etiche.
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